Asilo presso Trinidad de Cuba

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Sognano un risveglio senza l'embargo: dopo cinquant'anni il sogno diventa realtà.

martedì 22 marzo 2011

Hemingway e Cuba

Hemingway scelse di non vivere a Cuba perchè c'era Fidel Castro
di
Leonardo Guzzo
11 Luglio 2009
Fidel Castro ed Ernest Hemingway

Ernest Hemingway visse i suoi ultimi anni in preda all’ossessione di essere perseguitato dall’Fbi. Arroccato nella sua casa di Ketchum, in Idaho, minato dagli eccessi di una vita sregolata e dall’abuso di alcol, il vecchio Papa aveva paura perfino di mettere il naso in giardino. Ad ogni angolo di strada vedeva complotti e tranelli, agenti in borghese pronti a rapirlo e gettarlo in qualche lurida cella di prigione per estorcergli con la tortura confessioni che lui non poteva fare. Ormai era diventata una mania…

Nell’America del maccartismo e della “caccia alle streghe” suggestioni del genere non erano inconsuete né inspiegabili, ma in Hemingway si aggiungeva qualcosa di più: la depressione che da anni minava la sua stabilità mentale, gli effetti devastanti delle cure che avrebbero dovuto guarirlo, il bisogno disperato di sentirsi, ancora una volta, al centro dell’attenzione.

In passato, certo, lo scrittore aveva militato tra i repubblicani nella guerra di Spagna, aveva avuto contatti col partito comunista spagnolo, salvo prenderne le distanze alla scoperta dei massacri di cui i comunisti si resero autori; nel corso della Seconda Guerra Mondiale aveva operato nei Caraibi, sotto copertura, per conto della marina americana; era rimasto invischiato in storie di spionaggio; per tutta la vita aveva simpatizzato per i partiti di sinistra e, soprattutto, aveva gridato forte le sue opinioni “anticonformiste”. Un curriculum da progressista, da “liberal” si direbbe oggi, ma privo di macchie e trascorsi particolarmente compromettenti. In realtà pare proprio che non ci fosse alcun motivo per giustificare un interessamento della polizia federale americana verso Hemingway.

Non è dello stesso parere Recchia, autore del recente saggio “Hemingway for Cuba”, che ribalta senza tanti complimenti la versione ufficiale proponendo un’approfondita, anche se non proprio inedita, ricostruzione alternativa. L’Fbi avvicinò effettivamente Hemingway e gli fece pressioni per abbandonare Cuba dopo la rivoluzione castrista. Per questa ragione, al di là dei malanni fisici e della crisi di ispirazione che lo affliggevano, nel luglio del 1960 lo scrittore lasciò l’isola per far ritorno negli Stati Uniti.

Dunque Hemingway non vaneggiava. L’Fbi gli stava davvero alle costole. Le apprensioni dei federali si appuntavano sul rapporto tra lo scrittore e Cuba e in particolare sulle presunte simpatie del premio Nobel verso il neonato regime di Castro.

Ma Recchia non si ferma qui. Sfruttando qualche appiglio ma non senza forzature, pone lo scrittore al centro di una torbida rete di intrighi tesa tra Cuba e gli Stati Uniti, che coinvolge Castro, Kennedy, i servizi segreti e la mafia e inghiotte per vie diverse Hemingway, Marylin Monroe e lo stesso presidente americano. Uno scenario suggestivo, che attinge a piene mani alla “teoria della cospirazione” ma non convince, specie a riguardo del legame politico del protagonista con Cuba.

Nel suo instancabile girovagare Hemingway giunse a Cuba all’inizio del 1939, proveniente dall’Europa, e vi soggiornò, con qualche interruzione, per più di quindici anni. A Cuba completò “Per chi suona la campana”, a Cuba scrisse quasi interamente “Il vecchio e il mare”, l’opera che lo consacrò come mito della letteratura mondiale e gli fruttò in pratica il premio Pulitzer nel 1953 e il Nobel l’anno successivo. Ma i rapporti dello scrittore col governo cubano, quello di Batista prima e poi quello rivoluzionario di Castro, non sono del tutto chiari.

In proposito esistono, nettamente contrapposte, due scuole di pensiero. Secondo la prima teoria, sostenuta tra gli altri da Norberto Fuentes in “Hemingway en Cuba”, lo scrittore era, se non vicino, tutt’altro che ostile a Castro. Una prova a sostegno di questa tesi sarebbe la propensione di Hemingway verso la vita avventurosa, la sua passione per le imprese temerarie e romantiche. La consacrazione, invece, arriverebbe da una foto che ritrae Hemingway e Castro a pesca sulla Pilar, la mitica barca del premio Nobel. Un uomo vecchio con la barba bianca e uno più giovane con la barba scura ridono insieme e mostrano orgogliosi una grossa preda: Hemingway sembra di fronte al suo “alter ego” in divisa da guerrigliero.

Alla propaganda castrista bastò quell’immagine per creare la leggenda di Hemingway simpatizzante della guerriglia e poi del regime di castro, ma in realtà le presunte implicazioni della foto posata a bordo della Pilar lasciano perplessi. Non a caso è Castro a scendere sul terreno di Hemingway: non è lo scrittore a farsi ritrarre tra i guerriglieri sulla Sierra Maestra, ma il Lider Maximo a entrare nel regno del premio Nobel, per partecipare da accolito al solenne rito della pesca. Con tutta probabilità la foto fu una mossa propagandistica di Castro, cui Hemingway si prestò ingenuamente, per vanità più che per fede politica, senza immaginare le grane che gli avrebbe provocato con l’Fbi. Per colpa di quella foto subì le attenzioni speciali (ma addirittura “morbose”?) dei federali americani, anche per colpa di quella foto abbandonò Cuba nell’estate del 1960.

Alla visione di un Hemingway “revolucionario in pectore”, però, fa da contraltare un’altra immagine, meno agiografica e più realistica, dello scrittore. La dipinge nel romanzo “Adios Hemingway” Leonardo Padura, secondo cui, pur risiedendo a lungo a Cuba, il premio Nobel rimase sempre estraneo alle vicende politiche dell’isola. Non era ostile al regime di Batista, che, pur nell’estrema corruzione, consentiva a benestanti e ospiti illustri, come lo scrittore americano, un elevato tenore di vita. Il regime gli concesse perfino un’onorificenza, che lui non si premurò affatto di rifiutare.

Con Batista, poi, Hemingway aveva stipulato un “patto di non belligeranza”. Lo scrittore si offriva come testimonial di Cuba, per catalizzare l’attenzione del mondo culturale sull’isola; in cambio Batista garantiva alla sua dimora, la Finca Vigia, una specie di extraterritorialità. La villa comprata dalla terza moglie di Hemingway, Martha Gellhorn, in cui per tutta ricompensa lo scrittore si stabilì con la nuova consorte Mary Welsh, diventò una sorta di enclave, uno Stato nello Stato con una vita a sé e una “costituzione” completamente autonoma. Tutto lascia pensare che lo scrittore americano volesse rinnovare il patto anche col regime di Castro.

Del resto Hemingway non provava grande interesse per la vita sociale dell’isola. Per lui Cuba era una riserva di ispirazione, lo sfondo ideale per mettere in scena un’altra delle sue grandi passioni. Cuba stava alla pesca come l’Africa stava alla caccia e la Spagna, ovviamente, alla corrida. Le giornate dello scrittore trascorrevano tra interminabili battute di pesca a bordo della Pilar, alla sfrenata ricerca di piaceri mondani o a scrivere nell’isolamento della Finca Vigia. Erano un continuo tributo e una preparazione alla scrittura, linfa per il suo genio creativo.

Per Cuba, invece, Hemingway è stato un cimelio vivente e poi, dopo la sua morte, un’enorme attrattiva turistica. Oggi può diventare addirittura qualcosa di più.

Nel corso degli anni alla Finca Vigia, trasformata in museo dal governo di Castro, sono stati ritrovati migliaia di documenti inediti. Il testo originale dell’epilogo di “Per chi suona la campana”, scritti sparsi, lettere, appunti, annotazioni. All’inizio del 2009, grazie alla collaborazione tra il museo cubano, il centro di Studi Sociali di Washington e la Biblioteca Kennedy di Boston, questi documenti sono stati catalogati, digitalizzati e messi a disposizione di studiosi e ammiratori dello scrittore.

In piena era Bush, dunque, il mito di Hemingway ha eluso le maglie dell’embargo, aprendo una breccia che l’amministrazione di Obama, dopo aver proclamato un “nuovo inizio” delle relazioni con Cuba, non perderà l’occasione di allargare.

Ambasciatore di pace, ponte ideale per la riconciliazione di due popoli: è questo l’ultimo alloro, postumo, dell’inimitabile Papa. Altro che strappare ai pescecani una gigantesca, inutile lisca di pesce…“Che sfacciata buonasorte!”, gli direbbe con un filo d’invidia la sua creatura più celebre, il vecchio sfortunato pescatore Santiago. “Che fascino straordinario!”, aggiungiamo noi ad onor del vero.
Se l’avesse saputo forse Hemingway ne avrebbe tirato fuori una storia. O forse ci avrebbe bevuto su un Daiquiri.